
Non è facile affermarsi nel mondo dello spettacolo, e non solo per i grossi problemi legati al sessismo, alla misoginia e ai rapporti di potere sbilanciati: la Mecca del cinema, gli Stati Uniti californiani, sono profondamente restii all’inclusione delle minoranze e alla rappresentazione di una multiculturalità. Per questo il fatto che Penelope Cruz, spagnola che in casa ha costruito una carriera di altissimo livello, sia nota al pubblico Occidentale extraeuropeo è cosa ancora più rimaerchevole.
Quali altre attrici non-americane possiamo citare? Tante, ma togliendo le anglofone, quindi icone come Elizabeth Taylor, Audrey Hepburn, le grandissime inglesi come Maggie Smith e Emma Thompson, le australiane Kidman, Blanchett, Robbie e la sudafricana Theron, molto poche. Sono lontani i tempi di Anna Magnani, Bridgitte Bardot e Ingrid Bergman, ancora più quelli della Garbo, e ora come ora Penelope se ne va da sola, musa di Almodovar in patria (con cui sta girando la settima collaborazione) e richiestissima all’estero.
L’occasione dei suoi quarantasette anni può farci riflettere su tematiche più vaste: il cinema, per come si presenta alla maggior parte di spettatrici e spettatori, è fedele alla vastità culturale mondiale? C’è una percentuale significativa di film trasmessi che siano di produzione non inglese o statunitense? L’exploit Parasite e il (a detta di tutt) bellissimo Minari (co-prodotto negli States ma interamente girato in coreano) sono qui a smentirmi, segno di un progresso che si fa strada pian piano, affiancato dal cinema d’autore europeo da sempre presente e in qualche occasione popolare oltre che artisticamente valido.
Fatto sta che di interpreti eccezionali non strettamente anglofoni ce ne sono poche, e la Cruz, al di là delle sue origini, si situa nel panorama delle grandi stelle per il suo talento e per la grande intensità della sua carriera. In oltre trent’anni l’abbiamo vista nei capolavori Tutto su mia madre e Volver, ha fatto da compagna al compianto Paul Walker in Noel (del 2004), l’abbiamo ammirata vincere un Oscar per Vicky Cristina Barcelona, è stata una delle migliori performer (anche cantando) in Nine, l’adattamento di un musical ispirato a 8 1/2 del 2009, ha recitato in italiano in quel brutto esperimento che è To Rome With Love, film del 2012 girato nella capitale, è tornata in Spagna per recitare in La regina di Spagna, lungometraggio sul cinema ambientato durante il regime di Franco, uscito nel 2016, e ha prestato il volto di una ipercattolica irlandese nell’adattamento di Assassinio sull’Orient Express di Kenneth Branagh, nel 2017. Ha spesso privilegiato ruoli di donne sensuali e passionali, ma ha saputo sfruttare la sua fragilità per sfuggire a inquadrature troppo riduttive.
Nina, ne La regina di Spagna, è una diva ma è anche combattiva e ha un profondo senso della giustizia. Carla, in Nine, è insicura e bisognosa tanto quanto desiderabile. Penelope sembra non voler lasciarsi limitare, e per questo ogni anno che passa non può che essere una sfida per lei, un modo per rimettersi in gioco, andare avanti a prendere qualcosa di diverso e emotivamente coinvolgente, nell’attesa che Hollywood apra le sue porte o smetta di essere considerata il centro esclusivo della settima arte.